Ho accantonato per un attimo il libro che sto studiando per un esame universitario di pedagogia per scrivere questo post.
Stavo studiando come la lettura di una fiaba o una storia possa aiutare i bambini in ospedale a metabolizzare il trauma della malattia e della paura derivante da essa, di come un libro possa essere un’arma potente di comunicazione e contatto fra il mondo adulto e quello del bambino che pur capendo che qualcosa nel suo corpo non va non ha parole adatte per raccontarlo all’adulto.
Ecco che la fiaba diventa un atto di prendersi cura dell’anima di quel bambino, di dargli voce, di ascoltarlo, di comunicare con lui sullo stesso piano.

Sono commossa, prima di essere la giovane donna che sono ora, una volta sono stata una bambina anche io: con due guance paffute, tutta ricci e chiacchiere.
Sono stata una piccola lettrice, amavo leggere, sin da piccolina mi si vedeva sempre con un libro in mano.
Ogni tanto mi fermo e penso a quello che sono diventata adesso, alla professione che ho scelto che svolgo con tutto l’amore che ho e che mi definisce.
Io non faccio l’infermiera, io sono un infermiera.
Io amo prendermi cura dell’altro, amo esserci e mettermi fra parentesi per dare spazio a chi ne ha bisogno.
Sono incantata dalle persone che incontro mentre faccio quello che più amo, dalle loro storie e i loro vissuti.
Ma più di tutto io amo lavorare con le famiglie: genitori, neonati e i bambini.
Faccio un lavoro che mi permette di andare in giro con un bambolotto senza sembrare una folle, un lavoro che mi permette ogni tanto di fare un passo indietro e ritornare bambina.
Ho capito che l’ambito materno-infantile fosse il mio, l’ultimo anno di infermieristica, durante il mio tirocinio in Terapia Intensiva Neurologica quando per la prima volta mi presi veramente cura di un bambino che se il caso fosse stato meno crudele non doveva essere di certo in quel letto di ospedale, ma nel lettino di casa sua.
Avevo già “lavorato” con i bambini il secondo anno d’infermieristica quando finii in Sala Operatoria Pediatrica al Rizzoli, ma questa volta era diverso.
Se in sala operatoria i ritmi erano veloci e il contatto umano breve e non emotivamente intenso essendo una sala che si occupava di eventi chirurgici programmati e dal basso rischio, quella volta dovevo veramente prendermi cura di quel bambino e la fortuna che oltre a una grande empatia che mi contraddistingue ho avuto un grande infermiere che mi ha guidata sul come fare.
Sembrerà assurdo ma la cosa che più mi è venuta spontanea di fare quando rimanevo lì a fargli compagnia (da tirocinante potevo e volevo) era leggerli i libri che i suoi genitori gli avevano portato.
Siamo stati insieme poco per fortuna sua, visto che nel giro di qualche giorno fu poi spostato in pediatria.
Ma entrammo in contatto subito, io leggevo e lui ascoltava, non parlava, ma al secondo giorno ero l’unica dello staff che poteva lavargli il viso senza che gridasse o piangesse.
E’ stato il mio primo piccolo paziente, lui spero non si ricorderà mai di me, ma io me lo porto nel cuore da quando l’ho incontrato e ho capito davvero che prendersi cura di qualcuno vuol dire andare oltre le proprie indispensabili capacità tecnico professionali, ma anche saperci essere, avvicinarsi all’altro scegliendo le modalità che più creano un contatto, fare un passo indietro da se stessi e lasciare più spazio all’altro.
Non servono grandi parole, frasi motivazionali o sorrisi costanti e forzati. Serve esserci, per davvero!
Qualche settimana dopo il mio tirocinio proseguì in pediatria, ormai quel bambino era stato dimesso ma incontrai altri piccoli fortissimi e unici pazienti che mi hanno fatto capire ancora di più che quello era il mio percorso.
Mi ricordo come fosse ieri una delle mie tutor guardarmi sorridendo e dirmi, al primo giorno di tirocinio in quel reparto, “Tu con i bambini ci sai proprio fare!”, ero piena di elettrodi appiccicati, persino uno in fronte, pur di convincere la mia piccola paziente che fare l’Elettro Cardiogramma non fosse niente di doloro o spaventoso e dopo che se l’era fatto fare non voleva più staccarsi gli elettrodi di dosso.
Me li porto tutti nel cuore quei bambini, per un po mi sono presa cura di loro curandoli con le medicine prescritte dal medico certo, ma anche giocandoci, leggendo storie, cullandoli, trattandoli con il massimo rispetto.

Alla fine ero pur sempre stata quella bambina riccia piena di sogni, canzoncine, libri, risate e pianti.
Non dimenticatevi mai dei bambini che siete stati, date ai vostri quello di ciò che avevate bisogno quando avevate la loro età.
Prendetevi il tempo per leggerli un libro o raccontargli una fiaba anche quello è parlare, anche quello è dire “ti voglio bene”!